Va detto innanzitutto che fin dagli anni settanta alcuni volontari della San Vincenzo andavano a trovare i detenuti nel Castello di Ivrea, luogo in cui era allora situato il carcere. Le condizioni erano veramente dure, quasi invivibili, finché è stato chiuso e i detenuti trasferiti a Cuorgnè. Anche là, dove per altro c’erano solo alcune celle (era quello che veniva chiamato “carcere mandamentale”, che adesso non esiste più), gli stessi volontari cercavano talvolta di essere presenti.

Castello di Ivrea
Castello di Ivrea

Ma è solo nel 1980 che viene inaugurato il carcere che oggi conosciamo; era stato preceduto da molte polemiche (sull’opportunità di farlo e su dove costruirlo), ma fortemente voluto dalla Giunta di allora. Purtroppo erano gli anni delle cosiddette “carceri d’oro”, per cui la struttura ha rivelato fin da subito molte magagne dovute ai materiali scadenti usati; inoltre, per aprirla, sono stati mandati ad Ivrea dalle varie carceri d’Italia, le persone che più davano noia, non tanto tra i detenuti quanto per il personale; ci sono stati quindi alcuni anni molto difficili, in cui nessuno in città voleva dare casa in affitto agli agenti, in cui questi facevano i bulli in giro, in cui insomma la convivenza era piuttosto difficile, e i volontari si dovevano molto occupare anche di questi problemi. In carcere però, oltre ai detenuti comuni, erano stati mandati un certo numero di appartenenti al terrorismo, soprattutto rosso; la vita interna era quindi facilitata sia dal numero ridotto di detenuti (erano allora uno per cella) sia dal livello culturale dei detenuti, ben consci dei loro diritti, ben capaci di organizzarsi e di occupare tutti gli spazi di autonomia possibile.

La struttura del carcere, di per sé, non si prestava ad attività comuni (come del resto tutte le carceri cosiddette moderne, dove le celle sono in fila lungo un corridoio e dove esistono pochissimi spazi comuni); ma i brigatisti hanno accolto con molta gioia la presenza del gruppetto di volontari, capeggiato da Tino Beiletti e da Meinardi, che aveva subito iniziato a frequentare l’istituto; e così in quegli anni è nato un giornale (il Gabbiano) che veniva venduto nelle edicole, e all’interno erano possibili molti incontri e momenti condivisi, anche perché le celle erano allora tutte aperte.

Il Carcere di Ivrea

La cosa evidente per Tino è stata fin da subito la convinzione che occorreva prepararsi seriamente al lavoro da volontari e che era necessario essere e restare sempre un gruppo compatto. Così ha dato vita a momenti formativi e ha iniziato a curare anche i rapporti con i gruppi di volontari presenti nelle altre carceri, fino ad arrivare a creare, verso la metà degli anni 90, un vero e proprio coordinamento regionale (che esiste ancora oggi), andando a visitare personalmente tutti gli istituti e organizzando momenti di incontro periodici. Dico questo per far capire come per Tino, pur all’interno della S.Vincenzo, fosse importante non tanto l’appartenenza religiosa quanto la disponibilità all’aiuto e la capacità di volersi bene.

Un primo grosso cambiamento è avvenuto verso la fine degli anni 90: sono improvvisamente stati portati a Ivrea moltissimi detenuti, pullman interi, praticamente nel giro di pochissimi giorni, per la maggioranza stranieri; non c’erano letti per tutti, mancavano le coperte, gli sgabelli, le lenzuola, e. di fronte alla confusione e alla rabbia delle persone, la risposta è stata la chiusura delle celle. E’ infatti da quell’epoca che è iniziata l’escalation delle carcerazioni, in seguito alle due leggi sugli extra-comunitari e sulla droga, che non si è più fermata e ha portato nel giro di poco più di 10 anni a quasi il raddoppio dei detenuti. Il gruppo dei volontari si è quindi trovato ad aver a che fare con una popolazione detenuta nuova: non più i colti brigatisti, ormai tutti fuori, o gli italiani più o meno del circondario (bisogna ricordare che quella di Ivrea si chiamava appunto Casa Circondariale), ma una massa di persone agitate per carenza di cure (tossicodipendenti) o per mancanza di qualsiasi bene e di vicinanza familiare (stranieri), e tutti inoltre chiusi per almeno 20 ore al giorno. Si sono quindi intensificate le attività sportive (il famoso Mundialito di calcio) e assistenziali, e i momenti comunitari dei concerti per tutti.

Giubileo del 2000

Giubileo 2000

Il secondo passo importante ha preso origine dall’occasione del Giubileo, nel 2000. Richiamandosi al significato dell’anno giubilare del mondo ebraico, che prevedeva un periodo in cui i debiti erano condonati, gli schiavi liberati e persino alla terra era offerto riposo e possibilità di ripresa, i volontari hanno pensato di lanciare sul territorio il messaggio del perdono. Oltre ad una significativa presenza alla 3 giorni diocesana, sono stati lanciati dei percorsi di conoscenza e di presa in carico nelle parrocchie e nelle scuole. I testi preparati nell’occasione sono molto interessanti e andrebbero ripresi in considerazione. La presenza di volontari per alcuni anni ha animato le funzioni liturgiche di alcune parrocchie: venivano preparati in carcere le preghiere e i doni per l’Offertorio e i volontari portavano nelle omelie la lettura dei testi del giorno meditata in gruppo; svolgevano inoltre nelle scuole superiori di Ivrea e circondario dei percorsi formativi in collaborazione con gli insegnanti che si prestavano. L’attività nelle scuole continua tuttora, mentre alcune parrocchie sono rimaste sensibili ai nostri problemi e ci supportano quando possono. Si è comunque costituita, fin dal 2000, una Commissione Diocesana Giustizia, che voleva essere un tentativo di far assumere dalla Chiesa locale anche la responsabilità dei problemi della giustizia; di fatto, oltre ad alcune poche persone che non appartengono al gruppo dei volontari, questa commissione non è mai riuscita ad avere reale riconoscimento nella Diocesi.

Il terzo momento significativo è più recente, e riguarda la decisione, presa nel 2011, di uscire dalla S.Vincenzo e di costituirsi in Associazione. Il passaggio è stato molto laborioso e impegnativo e siamo ancora in fase di assestamento, perché appunto, benché abbiamo fatto uno statuto, non siamo ancora riusciti a fare il regolamento (che è proprio quello che dovrebbe porre i confini e definire le modalità del nostro comportamento, sia tra noi che coi detenuti e in carcere). Questa scelta ci ha dato però una libertà operativa che, dopo la morte di Tino (che sempre tutelava la nostra diversità rispetto alle rigide regole della S.Vincenzo) non avevamo più.

L’ultimo passaggio significativo è stato l’aumento considerevole del numero dei volontari, dopo il corso di formazione di fine 2011. Anche questo ha comportato e comporta difficoltà organizzative non indifferenti e l’omogeneizzazione del gruppo non è ancora avvenuta pienamente. Siamo tutti responsabili di portarla a compimento.